05 Mar I frammenti del nostro Giardino Magico.
Stiamo vivendo un’epoca nella quale, finalmente, siamo sollecitati a porre la nostra attenzione nei confronti dell’ambiente e della cura che dovremmo, e avremmo sempre dovuto, rivolgere nei suoi confronti.
La riduzione delle emissioni nocive, il riciclo, la pulizia dei mari e degli oceani così come l’impegno a limitare gli sprechi, sono diventati, soprattutto negli ultimi 20 anni, temi sensibili fortunatamente dibattuti e discussi non solo dai settori competenti ma anche dalla comunità.
Questa è la prima generazione che ha la possibilità (e il dovere) di interrogarsi e di reperire una serie di informazioni che riguardano il presente e, inevitabilmente, le conseguenze che potranno coinvolgere le generazioni future.
È fondamentale riconoscere ed essere consapevoli della responsabilità che ognuno di noi ha nel presente e della possibilità, attraverso le nostre singole azioni, di influenzare e definire la traiettoria del nostro futuro.
Poche settimane fa ho avuto il piacere di visitare i “Philadelphia’s Magic Gardens”, un luogo magico e fantastico realizzato proprio dalle fantasie e dai sogni dell’artista Isaiah Zagar, una sorta di “compositore” e “riciclatore” capace di realizzare un ambiente suggestivo e misterioso proprio attraverso l’accostamento di oggetti e prodotti che parevano aver esaurito la loro utilità ed il loro diritto di esistere.
In questo giardino sono infatti presenti oggetti riciclati, cocci di vetro e bottiglie, ruote di biciclette e vecchie mattonelle, bambole di terracotta e cianfrusaglie, cose che non avrebbero più senso per la maggior parte dei consumatori contemporanei, intenti a guardare il mondo con gli occhi smarriti di chi corre senza saperne il motivo.
Tante piccole cose, innumerevoli dettagli che, armonizzati insieme, si coordinano in sinfonie di colori e movimenti capaci di raccontare storie di un’esistenza rinnovata.
Questi oggetti sono spesso “frammenti”, pezzi di un qualcosa che in passato aveva una sua identità, una sua continuità; questi frammenti costituivano un’unità che possedeva un proprio peculiare senso.
Ma ora, in quanto parti e segmenti di qualcosa che non esiste più, che significato possono avere?
Isaiah Zagar è riuscito a trovare una collocazione a questi frammenti e, così facendo, a restituir loro un nuovo significato, diverso dal precedente e lontano da quel senso di unità andato perduto, ma offrendo loro l’opportunità di andare a costituire qualcosa di inedito e in grado di raccontare una nuova storia.
Il lavoro di uno psicologo è molto simile a ciò che questo artista ha saputo coraggiosamente mettere in pratica.
Nel corso della nostra vita affrontiamo una serie di esperienze che nel tempo cerchiamo di organizzare dando loro un significato; l’obiettivo è di poterci sentire coerenti, in continuità con noi stessi, andando a rafforzare e giustificare quel fil rouge che raccoglie il nostro senso di identità.
Ciò che preferiamo, che ci appare logico, che ci risulta famigliare e consueto, tendiamo facilmente ad assimilarlo nella nostra esperienza; ciò che ci risulta inusuale, illogico e pericoloso tendiamo invece ad allontanarlo, a dimenticarlo, come se non fosse mai accaduto.
Nella nostra vita facciamo esperienza di emozioni e situazioni spiacevoli e impreviste che volentieri, proprio per procedere nella costruzione della nostra identità, chiudiamo in un cassetto di cui perdiamo la chiave.
Questi “brandelli” di vita rimangono come in sospeso, all’ombra della nostra coscienza, dimenticati in una discarica come i cocci di vetro fino a quando, per motivi che solo in seguito sarà possibile comprendere, fanno nuovamente capolino portando con loro la sensazione di aver trascurato e obliato “Vite non vissute” (T.H. Ogden, 2016).
Sono proprio questi frammenti di vita a costituire il materiale e la traccia che in psicoterapia si cerca di far riemergere.
Così come i frammenti abbandonati utilizzati da Isaiah Zagar, anche i “frammenti di vita non vissuta” devono essere raccolti e, attraverso uno sforzo creativo, ricollocati all’interno di una nuova cornice di vita capace di legittimare e riconoscere il loro diritto di esistere. Proseguendo la similitudine, si tratta di ri-comporre uno scenario, inizialmente meno famigliare del precedente, ma in grado di raccontare la storia di un’esistenza rinnovata, andando a realizzare un personale “giardino magico” nel quale possono prendere domicilio i nostri vissuti e le nostre fantasie.
(Ogden, T.H. (2016). Vite non vissute. Esperienze in psicoanalisi. Raffaello Cortina Editore, Milano 2016, pp. 19-20.)