
13 Feb Psicoterapia ad acquerello: l’evoluzione “a onde”
Molto spesso chi si rivolge ad uno psicologo richiede, primariamente, la propria “guarigione”; le sue attese sono infatti rivolte alla risoluzione di un problema che, il più delle volte, è rappresentato da un sintomo più o meno tangibile.
Di conseguenza la soddisfazione del paziente passa inevitabilmente dalla sparizione o dalla eliminazione di questo sintomo, identificato dalla persona come la causa della propria sofferenza, piuttosto che come l’esito della stessa o della sua “rivelazione” (J. Hillmann, 1972).
In quest’ottica è facile immaginare quanto la durata della terapia sia un elemento di grande rilevanza per un paziente; impegnarsi quotidianamente nell’arginare le proprie difficoltà favorisce il bisogno di “guarire” con urgenza e, così facendo, assicurarsi una condizione di vita migliore.
Accade quindi che una psicoterapia non centrata sul sintomo, non focalizzata e agita direttamente su di esso, possa essere percepita come un percorso eccessivamente lungo e tangenziale e che, soprattutto, non fornisce quelle indicazioni e quei consigli di cui il paziente sente, in quel momento, estremo bisogno. Questa convinzione, comprensibile, non affronta però le origini del sintomo e, con esse, trascura la consapevolezza di essere io, in prima persona, a poter agire sul sintomo; così come sono stato io a costruirlo, con la mia specificità, così sono io a poter cambiare e trovare nuove strategie per muovermi nel mondo. Delegare la mia “guarigione” può apparire comodo, ma se parlo di me stesso, nessuno può sostituirmi nella creazione del mio “abito su misura”.
Durante un percorso di terapia si verificano, a tempus maturum, dei momenti più “salienti” di altri; anzi sono questi scambi salienti a costuituire e legittimare una terapia, a favorire nella persona la sensazione che qualcosa si stia muovendo, lasciando, volta per volta, delle tracce “vive”.
Queste tracce sono dei moti interni, veicolati dalla relazione con il terapeuta, che perturbando una condizione di equilibrio precario lasciano sentire che qualcosa si stia depositando nella nostra coscienza; sono delle “onde”, simili a quelle che si infrangono e si depositano sul bagnasciuga, cariche di significati che, una volta asciugatasi l’acqua, si sedimentano nella nostra spiaggia andando a ri-comporne la sostanza e la forma. A più riprese queste onde arrivano a disegnare uno scenario che si rinnova, aggiungendo e togliendo ciò che avevamo perso e ciò a cui scegliamo di rinunciare. Prendere coscienza rispetto a una nostra difficoltà significa proprio accogliere e legittimare una dimensione della nostra persona che, per quanto incresciosa o fastidiosa che sia, è preferibile riconoscere piuttosto che rinnegare. Questo perché, se non esplicitamente, la dimensione che ci affligge trova comunque una via per farsi sentire, per comunicarci qualcosa, anche indirettamente o metaforicamente (come il sintomo).
Queste onde, stimolanti, forniscono quindi nuovi elementi e nuove letture a ciò che siamo abituati a sperimentare.
Mi rendo conto che, come accade di norma, comprendere ciò che avviene all’interno di una terapia è complicato senza esserne stati partecipi. Difficile raccontare a parole qualcosa che, per l’appunto, avviene ad un livello più profondo di quello logico-razionale con cui siamo abituati a spiegare ciò che ci riguarda e ci coinvolge.
Le persone spesso non si rivolgono ad uno psicologo perché ritengono di essere già molto introspettive, perché considerano di essere perennemente in “auto-analisi”, perché già parlano con gli amici dei loro problemi e perché una terapia basata “sulle parole” sembra incapace di condurre ad un cambiamento di prospettiva. Oltre a questo, se consideriamo la frenesia che caratterizza la nostra epoca, la necessità di “avere” una soluzione immediata è di gran lunga più alettante rispetto a riconoscere di “essere” noi stessi la cura.
Trovo quindi possa essere utile descrivere l’essenza della terapia utilizzando una metafora, ossia quella della pittura ad acquerello.
Ciò che accade mentre dipingiamo ad acquerello ripropone, con ancor maggiore chiarezza, il senso del moto interno che percepiamo ogniqualvolta la nostra persona viene bagnata dalle onde. Partendo da un foglio bianco, dalla grammatura resistente, iniziamo a bagnare la superficie seguendo quei “tratti” e quelle linee che rappresentano le nostre certezze, la bozza del nostro disegno; aggiungiamo quindi, con il pennello, un primo flutto di colore che, oltre a depositarsi sulla superficie, scenderà in profondità tra l’intreccio fibroso del foglio. Il colore, mischiandosi all’acqua, si svolge e si “muove” con un’andatura anarchica, tanto da impregnare in modo imprevedibile alcune zone e sorvolarne altre.
Ciò che avviene in questi momenti è fuori dal nostro controllo; osserviamo con stupore il di-venire.
Dopo qualche minuto, così come le onde frenate dalla spiaggia si asciugano e si ritirano, l’acqua sul nostro foglio sparirà; l’eredità di questa prima onda sarà rappresentata dall’evoluzione della biodiversità sulla rena, una varietà di microorganismi e minerali, mentre per quanto riguarda il nostro disegno ad acquerello, la traccia “viva” la troveremo nel colore depositato, con le sue sfumature e le sue intrepide espansioni. Un colore “residuo” che, svanendo il suo umido rigoglio, si sbiadisce pur fissandosi in modo indissolubile.
Per proseguire nel nostro lavoro avremo quindi bisogno di inondare nuovamente il nostro disegno con del nuovo colore, per poi attendere il depositarsi della nuova trama cromatica. E così per svariate volte. Aggiungeremo via via una serie di elementi che ciclicamente andranno ad integrarsi creando un nuovo ecosistema. Onda dopo onda il nostro disegno troverà maggiore definizione, arricchendosi di dettagli, sfumature e intrecci, indugiando su quelle zone che ancora richiedono attenzione.
Le onde salienti, sentite come cariche di significato, si propongono con una dinamica molto simile durante un percorso di psicoterapia, offrendo delle esperienze emotivamente pregne che si depongono nella nostra coscienza; talvolta si insinuano in modo imprevisto, bizzarro e sconveniente, ma pur sempre in grado di sollecitare un processo di ri-costruzione.
Ciò che appare nuovo, non lo accettiamo semplicemente per la sua natura inedita, ma perché ha un profumo famigliare e sembra aderire al nostro presente con estrema fedeltà, raccontando la nostra storia nel modo più autentico.
Stratificando le onde, siamo in grado di integrare quegli aspetti che hanno “più presa” e che meglio si accomodano nella nostra esperienza, sostenendo il riconoscimento e la comprensione della personale dimensione intima, in grado di fare luce sul presente e di proporre scenari alternativi per l’indomani.
Hillman, J. (1972). Il mito dell’analisi. Gli Adelphi, Milano (2012).