
22 Gen Se il “mio” mondo appare inospitale, è proprio dal mio sguardo che può cambiare.
Qualche tempo fa, mentre la televisione mostrava immagini della terra osservata dallo spazio, sono rimasto affascinato da alcune fotografie come questa che immortalavano, in dettaglio, il delta di un fiume.
Ciò che mi ha colpito è stata la somiglianza di questa immagine con qualcosa di estremamente familiare e vitale per chi abita il nostro pianeta: un albero.
Metro dopo metro, l’acqua dolce che scorre verso il mare, procede occupando alvei e sentieri via via sempre più piccoli e numerosi così come i rami degli alberi, avvicinandosi al cielo, si moltiplicano e si affilano arrivando a disegnare trame sempre più fitte.
L’aspetto curioso di questa similitudine è rappresentato dal fatto che sono proprio gli alberi e le piante, con le loro radici e la loro struttura flessibile, a condizionare e a “definire” i percorsi e i tragitti dei corsi d’acqua; sedimenti e detriti organici legittimano e solidificano quelle traiettorie destinate a mantenersi nel tempo.
L’ambiente che ognuno di noi conosce, con le sue diramazioni e le sue incertezze, è un ambiente unico e diverso da ogni altro. Un ambiente costruito e definito passo passo da ciò che ognuno di noi rivolge verso di esso. Un legame, quello tra la persona e il “suo” mondo, caratterizzato da una costante interdipendenza dove le analogie tra le parti si mescolano e si confondono arrivando a costruire una realtà esclusiva dotata di un significato particolare.
Seguendo questa prospettiva, risulta importante riconoscere l’ “atteggiamento attivo” che la persona pone nei confronti del mondo di cui fa esperienza; “conoscere il mondo significa crearlo e farlo e, con la propria attività, trasformarlo” (K. Jaspers, 1925). Proprio attraverso questo “dualismo perpetuo” il mondo viene ad essere riplasmato, in modo ricorsivo, al fine di poter essere organizzato e compreso come il proprio personale mondo.
Così quando la realtà che si presenta dinnanzi a noi appare estranea e avversa, non possiamo dimenticare che la sua forma ed il suo senso hanno origini nella nostra persona. Ciò che sembra essersi smarrito è il percorso che ci ha portato a costruire la nostra personale “visione del mondo” e che spesso, per quanto possa risultare spiacevole e insoddisfacente, possiede proprietà rassicuranti che vanno a costituire una “zona di confort”.
In modo simile a come si sviluppano gli intrecci dei percorsi fluviali in prossimità del mare, aumentando il loro grado di complessità, anche gli snodi e le problematiche di una persona tendono ad aumentare per numero e articolazione con il procedere del tempo.
“L’uomo”, sottolinea Jaspers, “fa esperienza del mondo come di una resistenza, e sperimenta che questa dipende in parte da lui stesso”; proprio attraverso questa resistenza il mondo esterno esiste come una realtà concreta e conoscibile. In modo simile questa “resistenza” è rappresentata dalle piante che si oppongono al corso d’acqua e impongono a quest’ultimo di modificare traiettoria; l’albero stesso, innalzandosi al cielo alla ricerca della luce, incontra la resistenza della gravità che impone ai rami una crescita condizionata.
Per poter cambiare il nostro personale mondo, che può talora risultare talmente inospitale da condurci a sviluppare condizioni sintomatologiche insostenibili (con grande creatività), è quindi fondamentale volgere lo sguardo verso sé stessi; una trasformazione del nostro mondo, così come lo conosciamo, non può prescindere da una presa di coscienza rispetto a noi stessi e al nostro modo di dare significato a ciò che viviamo.
Solamente attraverso uno sguardo rinnovato su ciò che siamo e che sentiamo, e comprendendo la disposizione e la natura delle nostre “radici”, abbiamo l’opportunità di influenzare l’ambiente nel quale navighiamo.
(Jaspers, K. (1925). Psicologia delle visioni del mondo. Casa Editrice Astrolabio, Roma 1983, pp. 66-68)
“Ma in un certo senso si può dire che anche se abbiamo abbandonato il mare dopo milioni d’anni di vita nelle sue profondità, l’oceano è rimasto dentro di noi. Quando una donna porta in grembo un bambino, lo fa crescere nell’acqua, e l’acqua nel suo corpo è quasi identica a quella del mare, contiene quasi la stessa quantità di sali. La donna crea un piccolo oceano nel proprio corpo. Ma non solo. Il nostro sangue e il sudore hanno quasi la stessa composizione dell’acqua di mare. Portiamo oceani dentro di noi, nel nostro sangue e nel nostro sudore. E con le nostre lacrime, piangiamo oceani”.
(Roberts, G. D. (2005). Shantaram. Neri Pozza Editore)